La parola jihad deriva dalla radice araba jhd, che significa intensa lotta o sforzo. Tradotto erroneamente in Occidente come “guerra santa”, il suo significato dipende dal contesto. Il termine, in particolare nella sua accezione religiosa ed etica, si riferisce principalmente alla lotta umana per promuovere ciò che è giusto e prevenire ciò che è sbagliato. Nello specifico sono previste due strade: una lotta morale all’interno di sé stessi, e un’altra armata verso l’esterno. Da una parte, porta quindi il significato ermeneutico di uno sforzo morale diretto verso il proprio miglioramento e l’auto-elevazione sul piano morale, tanto che eminenti giuristi musulmani sono stati citati come jihad-e-akbar (jihad maggiore). Dall’altra, i preparativi e la partecipazione alla difesa contro un conflitto armato, conseguente a un’aggressione straniera, sono stati conosciuti come jihad-e-asghar (jihad minore).
In generale nei testi sacri ci si riferisce a al-jihad fi sabil Allah, “impegnarsi sulla via di Dio”, che comprende quattro modi principali attraverso cui può essere eseguito il jihad: con il cuore, la lingua, la mano (azione fisica, a esclusione del combattimento armato) e la spada.
La definizione di jihad include anche le regole da seguire soprattutto con riferimento al jihad minore. Al-Tabari, studioso iraniano noto soprattutto per la sua esperienza nell’esegesi coranica (tafsir) e nella storiografia, cita, per esempio, che il cugino del profeta Mohammed, Ibn Abbas, nel suo commento al versetto coranico di riferimento, ha riportato coloro che andrebbero esclusi da eventuali “attacchi”: “non uccidere le donne, né i bambini, né il vecchio, né colui che ti saluta con pace, o colui che trattiene la sua mano [dal ferirti], e se fai questo, allora hai trasgredito”. Un’altra tradizione, anch’essa riferita da al-Tabari, viene dal califfo omayyade Umar ibn ‘Abd al-Aziz, o Umar II (720 d.C.), che contestualizza lo stesso versetto coranico in maniera simile: “Non combattere colui che non vi combatte, cioè donne, bambini e monaci”.
Per comprendere meglio il contesto in cui il termine acquisisce determinati valori e significati, è necessario menzionare i cinque Pilastri dell’Islam, in arabo Arkan al-Islam, ossia i doveri che spettano a ogni musulmano: shahadah, la professione di fede musulmana; ṣalat, o preghiera, eseguita nel modo prescritto cinque volte al giorno; zakat, la tassa di elemosina riscossa a beneficio dei poveri e dei bisognosi; ṣawm, digiuno durante il mese di Ramadan; e hajj, il principale pellegrinaggio alla Mecca, se le condizioni finanziarie e fisiche lo consentono. Secondo Fazlur Rahman, studioso e filosofo modernista dell’Islam del Pakistan, “tra le successive scuole legali musulmane […] sono solo i fanatici Kharigiti ad aver dichiarato che la jihad è uno dei pilastri della Fede”.
Va notato, altresì, che il Corano proibisce esplicitamente l’inizio della guerra (inteso come attore che attacca per primo) e permette di combattere solo contro aggressori reali. Col passare del tempo, i giuristi musulmani classici, addetti principalmente alle questioni di sicurezza dello Stato e alla difesa militare del regno, iniziarono ad utilizzare il jihad come dovere militare. Nonostante tale interpretazione, cristiani, ebrei, zoroastriani, indù e buddisti, descritti come “Persone del Libro” nel Corano, sono considerati comunità da proteggere dal sovrano musulmano: viene applicato il concetto per cui, prima o poi, potrebbero abbracciare l’Islam, o almeno sottomettersi al dominio islamico e pagare una tassa speciale (jizyah). Nel caso in cui nessuna di queste ultime due condizioni si fosse realizzata, allora sarebbe stato ammesso il combattimento, a meno che non fossero stati firmati trattati tra tali comunità e le autorità musulmane.
Il jihad militare poteva essere proclamato solo dal legittimo capo politico musulmano, di solito il Califfo, e i giuristi hanno sempre vietato attacchi ai civili e le distruzione di proprietà, citando come giustificazione le dichiarazioni del profeta Maometto. Il jihad è stato anche strumento fondamentale contro il potere colonialista in Medio Oriente e Nord Africa. È stato utilizzato in India e in Pakistan contro gli inglesi, in Afghanistan contro i russi e in Nord Africa contro gli europei. In quest’ultimo caso, tra le più importanti battaglie bisogna ricordare quella combattuta in Algeria, la più lunga nella storia del colonialismo nei paesi arabi, che ha visto protagonista la popolazione locale contro i francesi.
Il termine classico del jihad è cambiato radicalmente da quando si è presentata la sfida globale al mondo occidentale. L’inizio di questa nuova “Guerra Santa” del ventunesimo secolo può essere fatto risalire all’attacco terroristico alle Torri Gemelle negli Stati Uniti l’11 settembre 2001. Il gruppo estremista al-Qaeda, guidato dal saudita Osama Bin Laden, diventò il punto di riferimento del jihad globale, attraverso l’azione di atti terroristici eseguiti contro l’Occidente. Approfittando di un’interpretazione particolare di diverse sure (versetti) dei testi sacri, come il Corano e gli Ahadith, i gruppi terroristici ne hanno enfatizzato il significato, in particolar modo per quanto riguarda l’uso della lotta fisica. È necessario considerare come i versetti che chiariscono le versioni coraniche della guerra includano il seguente passo: “Invita (l’umanità, o Maometto) alla via del tuo Signore con saggezza, ragione e intenzioni chiare. Veramente il tuo Signore conosce meglio chi si è smarrito dal Suo Sentiero, ed è il più consapevole di coloro che sono guidati”. (al-Nahl, versetto 125). Questo versetto (non menzionato nei manuali di al-Qaeda) sostiene lo scambio razionale di idee, la libertà di scelta nel culto, e chiede di lasciare a Dio il giudizio sugli altri. Sebbene molti occidentali abbiano inteso l’obiettivo dei musulmani come la volontà di convertire il mondo intero attraverso il jihad, questo è decisamente lontano dalla verità. Lasciando ampio spazio alla razionalizzazione umana, gli opinionisti hanno discusso l’importanza del libero arbitrio sulla base di questi versetti. Gli islamisti, immersi nella loro fede, citano il Corano nel tentativo di creare la propria visione di uno Stato islamico. Tuttavia, attingono selettivamente ai versetti coranici e omettono intenzionalmente le ingiunzioni che non si adattano alla loro agenda politica.
Nel culto islamico, il jihad, come già detto, non ha solo tale accezione. Nell’arco della storia sono stati sviluppati diversi significati e forme dell’uso del termine, come ad esempio il jihad per sostenere gli oppressi, per la ricostruzione (dopo una guerra o disastri naturali), per la scienza e lo studio, per aiuti umanitari e, negli ultimi decenni, anche il Digital jihad e il Gender jihad. Questi ultimi, in particolare, hanno attirato molto l’attenzione degli studiosi. Il Digital jihad, ad esempio, è stato rapidamente sfruttato da alcuni gruppi terroristici, come il cosiddetto Stato Islamico (Isis), per trasmettere la loro influenza propagandista e riuscire a ottenere un sostegno considerevole, attraverso l’utilizzo in particolare dei social media.
Un esempio notevole in tal senso potrebbe essere l’Iran dopo la rivoluzione del ’79. In tale paese è stato creato il jihad universitario, proprio come apparato istituzionale, responsabile dell’organizzazione dei corsi di alfabetizzazione. Esaminando i libri esistenti e rimuovendo tutti simboli del regime precedente, sono stati preparati e presentati contenuti adeguati ai valori della Rivoluzione islamica.
Seguendo altri filoni, uno dei recenti sviluppi dell’uso di jihad è il ramo intellettuale, una forma che prevede di non usare più il jihad fisico ma usare il jihad del pensiero. I gruppi islamisti hanno notato che, tramite l’influenza ideologica, spirituale, e gli aiuti economici alla fascia bisognosa della società, si hanno maggiori risultati e, di conseguenza, un maggiore successo. Questo fattore, tramite strumenti democratici come il sistema di votazione, ha in molti casi permesso di ottenere un consenso politico maggioritario nel paese. Esempio recente è il gruppo dei Sadiristi in Iraq, con Muqtada al Sadr che ha deciso di trasformare la propria milizia in una “forza culturale e religiosa”: un’associazione che è divenuta nota come Momahidoun, che in arabo significa “coloro che aprono la strada”: una nuova identità creata per guidare un jihad intellettuale e per rafforzare la sua leadership a livello spirituale.
Shirin Zakeri